Esistono molte tecniche di meditazione. Quella che noi usiamo viene chiamata anjôdaza:
AN essere a proprio agio, pacifico, quieto;
JÔ stabilire, stabilirsi, calmarsi, appianarsi;
DA attacco, colpo, imprimere, temprare;
ZA lo stare seduti,trono, piedistallo, posizione;
Potremmo dunque volgere in italiano il termine anjôdaza con “star seduti stabili e quieti” o anche “sedersi (assumere una posizione, in senso lato) stabilmente a proprio agio”.
Nel contesto educativo proposto dal maestro Tada Hiroshi, anjôdaza esprime uno stato mentale libero da attaccamenti, un’attitudine psicofisica stabile ma rilassata, una sorta di concentrata quiete della mente in cui non v’è traccia alcuna d’un prodursi cosciente del pensiero, potendo tutto ciò favorire quello stato d’animo in cui “le tecniche si generano e si trasformano senza posa come acqua zampillante da una sorgente”.
E’ dunque anjôdaza uno stato d’animo, una disposizione dell’essere ineffabile ma reale che viene spesso descritta dal maestro Tada Hiroshi come l’ascoltare il suono del vuoto con le orecchie dello spirito.
Prima di iniziare a praticare la meditazione occorre allenarsi, periodicamente e metodicamente, con le tecniche di respirazione poiché occorre un certo quantum di energia, una certa riserva potenziale per effettuare il “salto” nella dimensione del “vuoto”, energia che solo il kokyuho puó fornire.
E’ utile ricordare che la continua attività cerebrale (il dialogo interno) e il flusso di emozioni spesso estreme come rabbia, passionalità, ira, ecc., sono tra le principali cause dell’esagerato dispendio di energie fisiche e psichiche che generalmente facciamo avvenire passivamente. Giunge comprensibile l’importanza che i maestri di meditazione danno al restare tranquilli, al non avere scatti di ira ed aggressività e contemporaneamente all’utilità di coltivare pensieri positivi ed armoniosi.
Quando si sperimenta lo stato di vuoto mentale non si è assenti o distanti dal mondo, né la propria mente è priva di contenuti psichici; ma si diventa un osservatore, lucido e presente, ma “al di sopra” delle sensazioni esterne e senza coinvolgimenti emotivi.
Si sperimenta una grande calma e pienezza e nonostante si rimanga fermi per lungo tempo non si prova noia o stanchezza. I colori si fanno piú intensi e scompare ogni forma di irrequietezza.Spesso a questo punto si fa notare che una vita senza emozioni diventa neutra, scialba e perde il suo gusto. E’ bene allora ribadire che chi medita impara semplicemente a distaccarsi dall’identificazione continua e stressante con i propri sentimenti.
Si tratta, in altri termini, non di annullare – o peggio – reprimere le proprie emozioni ed i pensieri ma di dare il giusto valore ed importanza senza farsi travolgere dalla loro forza. Per usare un esempio “grammaticale”, sarebbe piú giusto dire (e pensare) nella seguente maniera: “un sentimento di rabbia mi sta attraversando” o “sto avvertendo una sensazione di paura” piuttosto che “io sono arrabbiato” (completa identificazione di se stessi con la rabbia). Con la meditazione si impara a gestire ed usare le proprie risorse interne come dei Re del proprio regno psichico e non come schiavi in balia delle onde emotive.
La condizione di vuoto mentale la si raggiunge con l’ausilio di un “campanello”(ring) che battuto dà origine ad una vibrazione sonora con la quale bisogna cercare di entrare in risonanza. Il “ring” è costituito da una coppa poggiata su di un piccolo cuscino che viene battuta due o tre volte di seguito con un bastoncino di legno per produrre il suono adatto per questa meditazione.
Ci si dispone in seiza o a gambe incrociate su un cuscino poi, una volta che ci si sente comodi e rilassati, si inizia l’allenamento battendo il campanello due o tre volte di seguito. E’ possibile praticare questa meditazione da soli o in gruppo; in quest’ultimo caso si puó formare un cerchio dando il compito ad uno dei partecipanti di colpire il campanello. Tutti i partecipanti guardano verso il muro, volgendo quindi la schiena verso il centro del cerchio.
Ogni persona (tenendo gli occhi chiusi o aperti) si dispone all’ascolto del suono cercando di unirsi ad esso completamente. Occorre infatti farlo risuonare internamente a se stessi in modo tale che nel preciso istante in cui la vibrazione s’interrompe si puó percepire il “suono del vuoto” e si entra in un particolare stato mentale di estrema chiarezza e lucidità in cui la vista, l’udito e la sensibilità si fanno piú intense e la percezione del mondo diventa piú profonda.
Paradossalmente le sensazioni si fanno tanto piú intense quanto piú il “vuoto” si instaura dentro di noi. Naturalmente il campanello viene battuto piú volte a distanza di qualche minuto allo scopo di permettere ad ogni partecipante di risentire la sensazione del passaggio dal “suono” al “non suono” per entrare in anjodaza.
Questa condizione va tenuta anche in mezzo al frastuono di una piazza affollata o durante una qualsiasi attività (come correre o guidare). Avanzando con la pratica bisogna allenarsi a realizzare questa condizione per calmarsi rapidamente o per attenuare una forte emozione o ancora per rallentare il battito cardiaco.
Si puó dire che il suono fisico prodotto dal ring lo si sente/percepisce con il corpo e con la mente. Invece il cosiddetto suono del vuoto è percepito dal Se, dal Testimone che semplicemente si limita ad osservare i movimenti del corpo fisico e della psiche.
Creare il vuoto mentale equivale analogicamente a svuotare una stanza da tutto ció che risulta inutile, ingombrante ed eccessivo. Evidentemente ogni tanto qualche pensiero spunta improvvisamente in questo spazio vuoto come una bolla colorata. Quando ció accade occorre semplicemente ricreare Anjodaza, cioè tornare nella condizione di vuoto sperimentata alla fine del suono del campanello.
Lo stile zen (essenziale, sobrio, con un grande rilievo dato agli spazi bianchi e alle zone vuote molto visibile nell’arredamento e nella pittura) è un’espressione esteriore di questa realtà interiore.
Nel momento in cui si percepisce il suono del vuoto, si entra anche in Anjodaza. Non è dunque un caso che nella tradizione orientate il picco massimo dell’esperienza spirituale venga identificato con la percezione del vuoto assoluto che, si badi bene, non coincide con il nulla. Anzi, il vuoto assoluto è la Realtà Ultima che sottostà alla creazione fisica.
Si potrebbe quindi anche dire che la meditazione consiste quindi nel fare un “percorso a ritroso” per tornare al vuoto presente all’inizio della creazione.
E’ infine importante dopo la seduta di meditazione rimanere in silenzio senza parlare; in particolar modo quando la si esegue in gruppo. Per parlare infatti bisogna attivare la parte sinistra del cervello, mentre la meditazione mette in funzione l’emisfero destro. E’ consigliabile quindi rimanere qualche minuto in silenzio immersi nell’atmosfera che si è venuta a creare.